La Sicilia è terra antica e piena di contraddizioni.
Chiunque abbia un minimo di interesse archeologico, storico o letterario, non può non subirne ancora oggi l’indiscusso fascino dovuto non solo alla sua cruciale importanza per la storia del Mediterraneo (e quindi per la storia europea) ma dovuto anche all’estrema eterogeneità delle origini e alla varietà delle numerose civiltà che si sono avvicendate nel corso della sua millenaria storia.
Perfino percorrendo a ritroso questa storia, dall’autonomia come Regione dello Stato italiano a statuto speciale, al periodo borbonico, austriaco, spagnolo-aragonese, francese-angioino, svevo, normanno, islamico, bizantino, romano, fenicio e greco, non possiamo trascurare – e qui siamo davvero alle origini – la suddivisione, poco conosciuta perfino dai siciliani stessi, tra elimi, sicani e siculi.
Non sorprende quindi che la Sicilia sia anche, o meglio soprattutto, terra di mitologie più che di mitologia (al singolare), a sottolineare che il fondamento costitutivo di questo popolo non è un blocco monolitico e unitario ma piuttosto un insieme meticcio di culture e relazioni che ancor oggi si rintraccia abbondantemente nel dialetto siciliano (una vera e propria lingua), nel cibo, nelle abitudini quotidiane, nei modi di essere, perfino nella cultura piuttosto radicata dell’accoglienza e dell’ospitalità.
Mi verrebbe da aggiungere che l’autore dell’“Uno, Nessuno e Centomila”, non era per puro caso siciliano e che forse non lo è nemmeno il fatto che due (uno è proprio Pirandello, l’altro Quasimodo) dei 6 premi Nobel per la letteratura italiani provengono da questa terra antinomica.
La storia dunque…e le storie, quelle reali e quelle raccontate.
Una di queste storie, una delle più note, ma che mi ha sempre colpito, pur nella sua semplicità (e che molti miei conterranei sicuramente riconosceranno), è legata alla famosa rivolta dei Vespri, avvenuta in occasione della Pasqua del 1282 (precisamente Lunedì di Pasqua, 30 marzo).
Dopo la sconfitta (e morte) di Manfredi, figlio di Federico II di Svevia, e con la decapitazione dell’ultimo degli Hohenstaufen, Corrado IV detto Corradino (episodio anche esso ricco di racconti), la Sicilia era diventata dominio dei francesi angioini.
Questi non erano certo benvoluti dai siciliani, a causa della notevole pressione fiscale, ma soprattutto per le angherie perpetrate.
Sembra che il pretesto della rivolta fu la perquisizione – sembra un po’ troppo solerte – di un soldato francese verso una nobildonna, tra l’altro accompagnata dal consorte, il quale non ci pensò due volte a vendicarsi uccidendolo.
La rivolta dilagò in tutta la Sicilia e…da qui nasce l’episodio che vorrei raccontare.
Per individuare i nemici francesi, cioè per capire se si trattasse di un siciliano piuttosto che dell’oppressore camuffato, si racconta che i rivoltosi chiedevano agli astanti di pronunciare la parola “ceci” (della cui farina ancor oggi nasce la fenomenale “panella”) che in siciliano si dice “cìciri”.
Orbene, i francesi non riuscivano a pronunciarla esattamente, la storpiavano in “scisciri” e così, tradendo la loro appartenenza, erano individuati come nemici e uccisi.
Non so quanto di vero ci sia in questo racconto, però di sicuro è episodio di grande fascino letterario: una parola riesce a distinguere il campo dello straniero-avversario da quello di compagno-alleato, attribuendo così alla lingua un ruolo fondamentale al senso di appartenenza a una comunità.
Del resto, se ancora oggi permane un forte senso di solidarietà tra i siciliani (soprattutto se emigrati o semplicemente lontani dalla terra di origine) probabilmente uno dei maggiori motivi è proprio l’aspetto linguistico.
La lingua del resto è uno degli elementi che definisce un popolo (uno degli elementi che definisce a sua volta, assieme al territorio e alla sovranità, lo Stato) e soprattutto una nazione, anche dal punto di vista giuridico e non solo letterario (come non ricordare qui la celebre definizione di Manzoni nell’ode Marzo 1821: “una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor”).
A ben vedere non si tratta di una specificità siciliana, anzi il termine per indicare una parola difficile da pronunciare per chi parla un’altra lingua è shibboleth.
http://it.wikipedia.org/wiki/Shibboleth
Il termine shibboleth indica una parola o espressione che, per le sue difficoltà di suono, è molto difficile da pronunciare per chi parla un’altra lingua o un altro dialetto. Per questa ragione, la parola viene scelta come contrassegno per distinguersi dai parlanti di altre comunità.
Chiaramente è una parola ebraica che ha due radici etimologiche, la prima shabal che significa “aumentare” o “fluire abbondantemente” e quindi legata a “fiume” o “torrente”, l’altra a dagah che significa “moltiplicare” o “essere aumentato” ed è invece legata a dagan cioè alla “spiga”.
Anche per essa c’è un racconto, questa volta biblico (precisamente nel Libro dei Giudici), molto simile a quello dei Vespri palermitani.
Anche in questa storia una parola è stata utilizzata per individuare il nemico, gli Efraimiti, che a quanto pare non erano in grado di pronunciare il suono [ʃ] di shibboleth.
E anche qui lo sbaglio era punito con la stessa condanna degli oppressori francesi della storiella vesprasiana cioè la morte immediata.
Da notare che shibboleth sembra sia utilizzata come una sorta di parola d’ordine nella Massoneria e del resto la spiga di grano, sinonimo di abbondanza, è uno dei simboli di questa associazione iniziatica.
Insomma, un legame mitico lega i ciciri alla shibboleth e gli ebrei ai siciliani da un lato, e un accento/parola/lingua e una connotazione sociale dall’altro.
In un libro- intervista, così scriveva Julia Kristeva:
“Capivo che trasformare la lingua equivale a trasformare gli uomini. Che non si può cambiare una società, domandare più solidarietà se la mentalità non viene cambiata. E che, esprimendosi la mentalità attraverso il linguaggio, la lavorazione che lo scrittore imprime al linguaggio è intrinsecamente impegnata, anche se l’autore non divulga direttamente slogan sindacali o politici. La trasformazione che la scrittura opera nel tessuto della lingua modifica la mentalità, modifica i corpi e i sessi e, a partire da lì, questa esperienza assolutamente intima si ripercuote sulla società stessa” (J.Kristeva, Il rischio del pensare, Il Melangolo, Genova, 2001, pag.21).
Non possiamo che condividere appieno e invitare tutti a una approfondita riflessione sulle conseguenze, dirette e indirette, che il linguaggio, oggi abusato con stupefacente leggerezza, possa determinare sulla società e sulle sue forze più dinamiche e creative.
E per farlo con più incisività, utilizzerò il linguaggio più forte e nobile di cui disponiamo: quello poetico e nello specifico quello di Paul Celan.
Giuseppe Savarino
Qualunque pietra tu alzi
di Paul Celan ( poesia tratta dal libro “Di soglia in soglia”, Einaudi, 1998)
Qualunque pietra tu alzi –
li discopri, coloro cui occorre
il riparo delle pietre:
denudati,
rinnovano il loro intreccio.
Qualunque tronco tu abbatti –
inchiodi assi
d’un giaciglio, ove
di nuovo s’ammucchiano le anime,
come se non si scotesse
anche quest’
Era.
Qualunque parola tu dica –
rendi grazie
alla perdizione.
Segnalo un piccolo link riguardante la parola “shibbolet”:
http://unaparolaalgiorno.it/significato/S/shibbolet