“Fourier non è solo un critico; la sua natura perennemente gaia ne fa un satirico e precisamente uno dei più grandi satirici di tutti i tempi”
Friedrich Engels
Charles Fourier è di solito archiviato come utopista o al più come “socialista utopico”, al pari Saint-Simon e Owen, per distinguerlo, come fece anche Marx, dai sostenitori del cosiddetto “socialismo scientifico”.
Questa semplificazione ha il difetto, non trascurabile, di sorvolare sugli aspetti più sottilmente critici del filosofo e di ridurlo sbrigativamente a ispiratore e organizzatore delle “falangi”, cioè delle comunità utopiche strutturate (alcune costituite realmente nel nord degli Stati Uniti) che dovevano avere come scopo principale il miglioramento dell’umanità, la creazione di un uomo nuovo, dell’Armonia.
Quando casualmente mi sono avvicinato, pochi giorni fa, a una “datata” selezione di alcuni suoi scritti affastellati ne “L’armonia universale” (Editori Riuniti, 1971), ho scoperto un autore che, depurato dai primordiali e ingenui istinti idealisti, è ancora sorprendentemente (tristemente!) attuale.
Di certo, lo stile letterario (al di là quindi dei contenuti) è apprezzabile: Roland Barthes e Italo Calvino videro in Fourier un autentico “inventore di scrittura”.
E’ indubbio che si tratti di un utopista ma è lo stesso autore che scriverà nella Théorie des quatres mouvements:
“Dopo tanti tentativi inutili di migliorare l’ordine sociale, ai filosofi non rimane che confusione e scoraggiamento”.
Chissà se si rendeva conto che questa frase avrebbe potuto benissimo essere applicata anche al suo tentativo.
La filosofia del resto per Fourier è una “scienza incerta” (così come la politica, la morale e la metafisica); si contrappone alle cosiddette “scienze esatte”, e, come tale, non ha fatto altro che aumentare il malessere sociale:
“Il solo spettacolo dei miserabili che riempiono le città non dimostra forse che i torrenti di lumi della filosofia non sono che torrenti di tenebre?”
Anche le altre tre “scienze incerte” hanno deluso: la metafisica non ha prodotto alcun risultato utile, la politica – che a parole esalta i diritti dell’uomo – non è stata capace nemmeno di garantirne il primo (l’unico utile) che è il diritto al lavoro; l’economia che promette ricchezze, trascura “qualsiasi ricerca sull’associazione domestica”, tradendo il suo significato etimologico; la morale che predica il disprezzo della ricchezza e l’amore per la verità, è finita per venerare il sistema commerciale, abbracciando “il culto del vitello d’oro” (cfr. pag.117-122).
La Civiltà – quinto dei sette stadi che attraversano secondo Fourier lo sviluppo dell’umanità – è definita brutalmente “abisso di miseria e di assurdità” (pag.68).
Il vero nemico tuttavia rimane il commercio e la finanza:
“Svelare gli intrighi di Borsa e dei mediatori vuol dire affrontare una fatica di Ercole” (pag. 75, capitolo dedicato a “il commercio e la banca”), un campo d’indagine che la scienza non ha neppure sfiorato.
Pur riconoscendone l’importanza (“Ognuno di noi stringe continuamente rapporti commerciali di compravendita. Possiamo trascorrere dei mesi, degli anni interi, senza entrare in relazioni amministrative, giudiziarie o finanziarie, ma non passa giorno senza che il più povero di noi eserciti, attraverso la compravendita, una qualche relazione commerciale”, pag. 76), ammette che giovanissimo (a sette anni) giurò “odio eterno al commercio” perché avvertiva il contrasto tra gli insegnamenti del catechismo e della scuola (“non bisogna mai mentire”) e quelli della bottega dove si esercita soltanto il “mestiere della menzogna o arte della vendita”.
Se Geoffroy dice che il commercio è l’arte di vendere a sei franchi ciò che vale tre, per Fourier questa è solo una metà dell’arte mercantile: l’altra consiste nel comprare a tre ciò che vale sei.
Insomma, una completa arte menzognera che mira a far apparire ciò che non è, per guadagnare su entrambi i lati dell’intermediazione (vendita e acquisto).
I commercianti – sostiene Fourier senza tanti giri di parole – sono dei “parassiti della società”, “valletti dei manifatturieri”, “pirati sociali”: “Divenuti troppo numerosi, i mercanti si disputano con accanimento le vendite che per l’incremento della concorrenza diventano ogni giorno più difficili” (pag.81).
Il commercio dirà – ricordando non a caso Quesnay – è il “nemico naturale dell’industria e dell’agricoltura”; “ a torto si crede il mercante schiavo solo del proprio interesse: egli è più che altro preda della gelosia e dell’orgoglio. Gli uni si rovinano per la sterile gloria di organizzare affari colossali, gli altri per la mania di schiacciare un vicino il cui successo li esaspera”(pag.82).
“In ultima analisi, ogni spreco finisce col gravare sul corpo sociale” (il Movimento Cinque Stelle approverebbe).
“Gli economisti si sono sbagliati di grosso quando hanno affermato che l’interesse è il solo movente del negoziante”(pag.82).
Quasi incredibile l’assonanza di argomenti che anticipano le problematiche della globalizzazione e non solo:
“…i banchieri e i ricchi mercanti non hanno una patria fissa. Avendo la possibilità di realizzare e trasferire i loro capitali in pochi giorni, non hanno alcun interesse per lo Stato e sono sempre pronti ad abbandonarlo se questo corre qualche pericolo. Come una banda di masnadieri che va saccheggiando ora questo ora quella contrada e non si ferma se non là dove c’è qualcosa da prendere, i mercanti sono pronti a portar lo sfruttamento in ogni paese, a cambiare nazione dall’oggi al domani, a far bancarotta a Parigi per metter su, qualche giorno dopo, gran fasto a Londra o a Berlino.” (pagg.88-89, I banchieri non hanno patria: il cosmopolitismo dei capitali).
La conclusione di Fourier è netta: bisogna eliminare il commercio, non lasciarsi illudere, come fanno alcuni, che i “flagelli” provocati non siano dovuti all’uso ma solo al suo abuso e che, senza questi eccessi, per sua natura tenderebbe ad altri fini:
“Che importanza può mai avere il fatto che il commercio abbia alcuni scopi degni di lode, se è poi certo che altro non è per gli uomini moderni che un vaso di Pandora che rovescia sul mondo intero torrenti di calamità?” (pag.90).
La sua anima rivoluzionaria lo spinge a sostenere che un albero che produce frutti velenosi va abbattuto ed estirpato alla radice:
“Ecco la sentenza di morte del commercio; è tempo che scenda dal trono in cui è tenuto dall’opinione pubblica, che sia votato all’obbrobrio e che scompaia dalle società umane cui non reca altro che depravazione e devastazione” (pag.90).
La sua critica è prettamente illuminista; crede nel progresso e per questo osserva con crescente preoccupazione che “il nostro secolo cammina sì ma all’indietro, come il gambero”.
Un secolo che non ha portato il benessere promesso, anzi il capitalismo (definito “industrialismo”) rischia di essere esso stesso una fede:
“L’industrialismo è la più recente delle nostre chimere scientifiche, mania di produrre confusamente senza un sistema di retribuzione proporzionale, senza una garanzia per il produttore o salariato di poter partecipare all’accrescimento della ricchezza” (pag.97).
Ogni riferimento allo spread è puramente casuale:
“L’eccessivo numero delle nostre conoscenze e dei progressi economici ci è diventato funesto, come il più sano degli alimenti nuoce a colui che ne prenda oltre misura” (pag.71).
Alcuni concetti di Fourier oggi sono stati ripresi a volte inconsapevolmente da diversi economisti, da Amartya Sen, a Polanyi, a Raj Patel al nostrano Luciano Gallino (autore di una elegante intervista raccolta nel libro “La lotta di classe dopo la lotta di classe”, Laterza, Roma-Bari, 2012):
“Il salario decrescente (nasce) dalla consuetudine di ridurre quanto più possibile il salario del lavoratore e di fondare sulla sua miseria il successo delle manifatture, che prosperano in ragione dell’impoverimento dell’operaio” (pag.102).
La miseria può nascere anche dalla stessa abbondanza.
“L’attività economica non coordinata, o civile, tutto è circolo vizioso; esso crea, con i suoi progressi, le condizioni per la felicità, ma non certo la felicità” (pag.105).
Un “mondo inverso” in cui gli interessi privati prevalgono su quelli generali e dove anche la concorrenza è inversa poiché tende “alla riduzione dei salari e conduce il popolo alla miseria grazie ai progressi dell’industria; più questa si sviluppa, più l’operaio è costretto ad accettare un lavoro poco remunerato perché troppo conteso; e, dall’altra parte, più il numero dei mercanti aumenta, più essi sono spinti alla truffa dalle difficoltà del guadagno” (pag.132, Le contraddizioni economiche).
Un mondo in cui il pericolo maggiore è la mancanza di libertà (“Dopo la salute e la ricchezza, nulla è più prezioso della libertà”) che distingue in fisica o materiale e sociale.
La libertà è illusoria se non è generale: non vi è oppressione laddove il libero sviluppo delle passioni è privilegio della più esigua minoranza” (pag.112).
Fourier già allora (siamo alla fine del Settecento, primi dell’Ottocento) parlava di modifiche chimiche dei cibi (“pane di patate, vino di legno d’India, aceto che non è aceto, olio che non è olio, caffè che non è caffè, zucchero che non è zucchero, indaco che non è indaco: tutto è adulterazione nei cibi e nei prodotti industriali”, pag.115).
Interessante anche la critica dell’architettura delle città moderne, con quelle “mostruosità talora più costose di un edificio bello e ben fatto”, ricordando e anticipando ancora una volta dei fenomeni tipici della modernità: l’attenzione verso l’estetica e il rispetto per l’ambiente.
“Spesso questi vandali costruiscono, per una criminale avarizia, case malsane e senza aria in cui stipano a basso costo interi formicai di plebaglia” (pag. 92, qui si riferiva alla situazione degli operai di Lione, ma non potrebbe adattarsi a certi nostri moderni nuclei urbani?).
Modernissimo anche il suo atteggiamento verso le donne:
“L’aumento dei privilegi delle donne è il principio generale di ogni progresso sociale” (pag.126).
Attribuisce la loro condizione di subalternità a un’educazione errata:
“La schiavitù non è mai così spregevole come quando una cieca sottomissione persuade l’oppressore che la sua vittima è nata per la schiavitù” (pag. 128).
Prende come esempio Ninon De Lenclos e Madame de Sévigné e arriva perfino a ipotizzare “che, in condizioni di libertà, la donna supererà l’uomo in tutte quelle funzioni dello spirito e del corpo che sono indipendenti dalla forza fisica” (pag.127).
Parla anche di adulterio e aborto, rilevando come per il primo, presso il popolo, ci sia una differenza di giudizio ingiustificata a seconda se commesso da un uomo piuttosto che da una donna e, per il secondo, che la morale, preoccupata solo di nascondere ipocritamente il “fatto”, condanna un’azione come quella di mettere al mondo un bambino in realtà “innocentissima”.
Per queste ragioni Fourier propone un cambiamento radicale che assicuri un benessere a tutti “che metta al sicuro dal bisogno gli uomini meno abbienti e garantisca loro, almeno come minimum, la condizione detta di mediocrità borghese”, dove all’interno del Falansterio il lavoro sia attraente e la proprietà collettiva.
Nel tentativo, lodevole nelle intenzioni, di non presentare soltanto una parte destruens, Fourier, come tutti gli utopisti, esagera.
Arrivando a propugnare un “ordine” educativo per l’infanzia in relazione all’età (alla maniera fascista) oppure a stabilire un numero preciso di pasti “corretti” (cinque al giorno) o addirittura a “disciplinare” la vita amorosa e sessuale (come ne “Il nuovo mondo amoroso” o in “Elenco analitico dei cornuti”).
Nel mezzo di questi ingenui deliri (“Si pecca anche per eccesso d’amore di Dio”, scriveva Umberto Eco ne “Il nome della rosa”) ci sono comunque alcune intuizioni felici, come per esempio quando auspica una educazione unica per i ricchi e per i poveri (anticipando don Milani e la scuola di Barbiana), che sia attenta “montessorianamente” alle tendenze naturali dei bambini (i più piccoli sono portati istintivamente a preferire i lavori manuali e quindi l’educazione per loro dovrà essere inizialmente molto pratica).
Non bisogna dimenticare che tutto questo va inquadrato in un contesto di idee fourieriane in cui le passioni sono considerate sempre buone e utili e la morale da dovere e repressione dovrebbe diventare solo piacere e libera soddisfazione dei propri impulsi e desideri.
Fourier parlerà perfino di un futuro mezzo di trasporto che chiamerà esotericamente “l’anti-leone” “che porterà un cavaliere a far colazione a Parigi, pranzare a Lione e cenare a Marsiglia, con poca fatica”.
Oggi possiamo affermare che questo “anti-leone” – inteso sia in senso fisico che astratto – sia una realtà concreta che sta modificando rapidamente perfino il modo di pensare dell’uomo moderno.
Non so quanto possa essere valida la conclusione che Fourier ne trasse:
“E questo mondo diverrà piacevole da abitare quando si potrà usufruire di simili servitori” (pag. 155, I futuri mezzi di trasporto).
Di sicuro lo ha reso più complesso o, come avrebbe detto Simmel, con più “interazioni” o “sociazioni”.
Theodor Herzl, padre del sionismo, affermava:
“Sogno ed azione non sono così largamente separati quanto molti credono; tutte le azioni degli uomini nascono come sogni e ridiventano sogni“.
Fourier credeva profondamente e illuministicamente in questo e amava ripetere, riprendendo un motto di Bacone: “occorre rifare l’intelletto umano e dimenticare ciò che si è appreso”.
Forse non bisognerebbe arrivare a tanto ma di certo la lettura critica, che Fourier ci ha lasciato, della società e delle dinamiche commerciali che si andavano delineando agli inizi dell’Ottocento (oggi pienamente al culmine delle conseguenze pratiche sulla vita degli uomini), merita indubbiamente un accurato approfondimento.