Il suicidio dell’intellettuale

Chi non ha mai pensato che la figura dell’intellettuale non sia in crisi, magari da un bel po’ di tempo, alzi la mano.

E lo faccia anche chi non lo ha mai guardato con sospetto e forse addirittura con disprezzo, svalutandone il ruolo con sarcastici e irriverenti commenti sulla sua pedanteria e boriosità.

E se tutto ciò una volta probabilmente era da attribuire a un pizzico di invidia, oggi più che altro sembra essere dovuto al fatto che ha perso definitivamente autorità e carisma.

La verità tuttavia è un’altra e forse ancora più dolorosa (per tanti altri più piacevole):

l’intellettuale è morto, anzi più precisamente si è suicidato.

E’ morto soffocato dalla sua stessa arroganza, dalla sua protervia cieca, per la sfrontatezza con cui si è mischiato al suo pubblico, adattandosi e confondendosi alla massa, a cui ha dovuto alla fine soccombere.

C’è chi si ostina ingenuamente a considerarlo ancora vivo, seppure perdente, uno sconfitto, come Marcello Fois su L’Espresso[1] oppure come Tomàs Maldonado, come vedremo, ma si tratta solo di una speranza che rasenta la disperazione:

l’intellettuale oggi non ha solo perso ma si è prima trasformato in un clown e poi è morto, ridendo sarcasticamente di se stesso.

L’intellettuale che stava guardando con sospetto internet e con scetticismo la capacità di autoregolamentazione dell’utente (l’illusione che questi possa scegliere veramente cioè in piena libertà cosa leggere e vedere) aveva sostanzialmente intravisto la propria fine vicina.

Gli altri invece tutti ingenui o sprovveduti!

Del resto, cos’altro aspettarsi, in un’epoca in cui la massa informe e caotica ha assunto ormai il rango di padrone?

Ci possiamo vantare della complessità della società moderna come un indice di progresso intellettuale e morale, ma la  verità è un’altra: è una complessità apparente, approssimativa, non aristocratica, priva di raffinatezza e attenzione ai dettagli. E’ una complessità al ribasso, causata dalla mescolanza della raffinatezza e della nobiltà originaria (grazie alla quale ciascuno aveva un ruolo definito e pertanto rispettato) con il volgare, il marciume, l’ibrido, il dozzinale, il plebeo.

L’intellettuale è morto perché non ha più un ruolo, non ha più il ruolo che lo contraddistingueva. E con il ruolo ha perso l’identità e lo stile, perché ha dovuto adattarlo progressivamente al media del momento: giornali e carta stampata prima, radio e tv poi, per arrivare al fagocitatore par excellence, internet e i social.

Bene, adesso che sappiamo che l’intellettuale è morto, possiamo con leggerezza chiederci: ma chi era dunque l’intellettuale? E perché oggi merita (ancora) una riflessione, nonostante sia una figura non più esistente?

Fondamentale è de-finire, in maniera più puntuale e precisa, il termine “intellettuale“, perché senza l’attribuzione di confini netti si corre il rischio di confonderlo con altre figure “affini” ovvero con il dotto, lo studioso, il filosofo, il libero pensatore, l’accademico, lo scrittore, il giornalista, l’esperto, il sociologo e perfino con il politico.

L’intellettuale NON è l’uomo di cultura dedito a studi privati, accademici o collettivi; NON è un Privatdenker che manifesta il suo pensiero indipendentemente dall’opinione comune; NON è l’esperto competente in alcune materie; NON è lo studioso dedito alla ricerca; NON è l’accademico che trasmette conoscenza nelle aule universitarie; NON è lo scrittore o il giornalista che promuove i propri o gli altrui testi; NON è l’esperto competente in determinate materie, spesso consulente della classe politica; NON è il sociologo che indaga i fenomeni della società umana e NON è il politico che arringa le folle.

Sì, può essere anche una o magari tutte queste cose assieme, ma nessuna di queste singole qualità lo definisce e lo caratterizza!

Intellettuale è un uomo colto, istruito e informato, attento a ciò che succede attorno a , che per professione dovrà svolgere una missione: diffondere conoscenza e indicare alla società – con capacità persuasiva e carisma – la propria visione del mondo, attraverso uno o più mezzi di comunicazione di massa.

Possiamo cioè affermare, molto più icasticamente, con le parole del Sommo poeta:

Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte.

(Dante, Purgatorio, Canto XXII, 67-69)

Dove non c’è una missione[2], una Beruf calvinistica ovvero un misto di vocazione e professione; dove non c’è carisma o prestigio; dove non c’è un pubblico disposto ad ascoltare e il più delle volte a seguire, non c’è dunque intellettuale degno di questo nome, ma al massimo sopravvive in esso un altro attore sociale.

Alla domanda “Che cosa è un intellettuale?” ha cercato di rispondere un designer e filosofo argentino, Tomàs Maldonado, nel 1995 (ed. Feltrinelli, in realtà una “drastica revisione” di un testo originariamente incluso nel libro “Cultura, democrazia, ambiente“, Feltrinelli 1990). Libro che, detto per inciso, ha alimentato le presenti riflessioni.

Dice Maldonado:

“Il ruolo oracolare dell’intellettuale è diventato superfluo perché tutta la società è diventata a suo modo oracolare. I media infatti svolgono oggi un compito molto simile a quello oracolare. Televisione, radio, stampa, fungono da oracoli del nostro tempo. […] Mi pare abbastanza credibile che i bisogni umani di divinazione, vaticini, responsi, predizioni, rassicurazioni, propiziazioni, norme di comportamento, un tempo soddisfatti (o quasi) dagli oracoli, siano ora compito dei media”.

Tutto ciò ha cambiato radicalmente il ruolo dell’intellettuale e progressivamente, annullando la base su cui si sorreggeva, lo ha dissolto o – se vogliamo essere ottimisti –  trasformato nella maschera di se stesso (il che poi è solo un modo diverso di esprimere lo stesso concetto).

«In questo contesto, l’intellettuale deve accettare senza riserve le norme, chiamiamole così, di stile che gli vengono dettate. Ossia non annoiare il telespettatore con discorsi troppo lunghi, o troppo articolati, o troppo distanti dagli interessi della gente.[…] In pratica, deve diventare un altro, rinunciare a se stesso, adeguare la sua immagine agli stereotipi comportamentali e verbali sanciti dai conduttori televisivi»

Attenzione, Maldonado sostiene ciò negli anni ’90 – non oggi – tanto che non menziona neppure il mass media che più di ogni altro ha accentuato e confuso (a volte sostituito) il ruolo oracolare  dell’intellettuale con quello del pubblico : internet, il web, i social.

Difatti, sostiene ancora che: “si dimostra come dare per liquidata, come si fa spesso, la figura del “risvegliatore di coscienze” sia alquanto prematuro.

Non aveva evidentemente fatto i conti con internet e i social.

Internet e più ancora i social hanno dato la stura ai peggiori istinti, disgregando qualsiasi opinione o idea unitaria, strutturata e soprattutto meditata, all’interno di un caos indistinto e mediocre o per dirla molto più prosaicamente con Umberto Eco:

«I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo due o tre bicchieri di rosso, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli».

Internet dunque ha sancito la fine dell’intellettuale, sconfitto dagli imbecilli: la quantità ha ridotto all’ombra inesorabilmente la qualità (non eliminato, si badi bene, perché tutto convive in un pot-pourri marcescente) perché le sciocchezze sono attrattive e inclusive mentre il pensiero e l’impegno repellenti ed esclusivi, come ben sanno gli esperti di comunicazione.

E’ diventato tutto un vocìo indistinto, una piazza senza palco, dove ognuno, narcisisticamente, sente solo il bisogno di gridare più dell’altro per farsi sentire (perché ha bisogno di farsi sentire, non potendo ascoltare nulla che non sia se stesso).

Ma dove c’è una piazza, il pubblico è il soggetto, mentre l’intellettuale è solo un attore in mezzo agli altri attori: perde dunque il suo ruolo specifico, è solo una voce in mezzo ad un rumore indistinto.

«l’intellettuale […] era visto come un attore sociale munito di una particolare facoltà: quella di essere in grado di procurarsi ascolto per le sue idee, di influenzare, nel bene o nel male, l’opinione pubblica. In poche parole, l’intellettuale così inteso era corteggiato o temuto per la sua capacità di persuadere, di guadagnarsi accoliti o neutralizzare avversari. L’intellettuale era in possesso dei mezzi per farlo: aveva ascolto perché aveva voce» (Maldonado)

L’intellettuale oggi non è più l’attore sociale che era in grado di influenzare l’opinione pubblica, al massimo ne dirige una piccola parte, destinata tra l’altro,miseramente ed ineluttabilmente, a cambiare un istante dopo (lo scorrere frenetico ed indistinto dei post sui vari social ne rappresenta l’emblema).

Costretto a rincorrere un’effimera e insensata visibilità con i talk shows e social, piuttosto che l’originalità del proprio pensiero, l’intellettuale oggi ha perso definitivamente il suo carattere elitario e con esso il prestigio e il carisma che lo contraddistinguevano.

L’intellettuale dunque è morto con internet e i social!

Assodato ciò, è lecito e forse utile chiedersi adesso quando è nato, se è sempre stato se stesso oppure se si è solo trasformato e adeguato ai tempi che cambiano.

Senza dubbi si afferma con l’illuminismo, nell’humus della dea Ragione perché fu in quel periodo che i governanti incominciarono seriamente ad apprezzarne la capacità oracolare. Persa, ma non del tutto, la qualifica di cortigiano, acquisiva progressivamente quella di rappresentante illustre della nuova classe sociale, la borghesia (e sempre meno della nobiltà). I governanti illuminati ne apprezzarono autorità e prestigio in ogni campo: oracolo appunto di istanze universali, in grado di individuare e suggerire ideali, stili di vita e modelli etici.

E si affermò allora perché, per la prima volta nella storia sociale umana, si assisteva alla crescita dell’alfabetizzazione e allo sviluppo dell’editoria: insomma, il pensatore, l’homme de lettres, lo studioso potevano finalmente uscire dall’isolamento perché avevano per la prima volta un pubblico a cui rivolgersi.

Insomma, se lo vediamo da un punto di vista evoluzionistico, l’homme de lettres è stato l’homo erectus, il philosophe l’homo neandertaliano, mentre l’homo sapiens, l’intellettuale moderno. Nella post-modernità invece, come dicevamo, si è miseramente estinto.

L’intellettuale illuminista, il philosophe, da buon intellettuale come sopra definito, aveva una missione civile ben precisa: doveva migliorare la società, “illuminando” il suo pubblico con l’idea del progresso intellettuale e scientifico.

E ci riusciva perché il pubblico – il loro ingenuo pubblico – era disposto ad ascoltarlo e a riconoscerlo come guida capace di condurlo sul sentiero della ragione.

Il pubblico dei philosophes è frequentatore dei Salons letterari – quelle “anticipazioni straordinarie delle chat, dei social network, perfino del marketing pubblicitario”[3]un pubblico ricercato e raffinato, in grado di apprezzare il compito sociale dell’intellettuale.

Successivamente, il termine ebbe un’altra grande diffusione con il cosiddetto Affaire Dreyfus e la pubblicazione sulla rivista L’Aurore di un noto articolo di Emile Zola del 13 gennaio 1898, intitolato iconicamente J’accuse[4].

In breve, si trattava di una condanna (ingiusta) di un ufficiale dello Stato Maggiore dell’esercito francese, di origine ebrea, Dreyfus, accusato di spionaggio a favore dell’odiato impero tedesco.

La questione divenne popolare perché prese le sue difese il noto (si badi bene…anche allora noto) scrittore Emile Zola, che per quest’accusa fu anche arrestato.

Sembra un episodio di poca importanza ma in realtà fu uno dei primi eventi “social” della storia umana, quantomeno per la risonanza mediatica che ne seguì.

Ci fu una divisione tra gruppi di dreyfusardi e anti-dreyfusardi e seguì una petizione di “intellettuali” (tra cui Jules Renard, André Gide, Anatole France, Marcel Proust, Jacques Bizet ed altri).

Appare allora dunque la parola intellettuale e si diffonde velocemente anche per la contrapposizione dei loro avversari, che tuttavia l’hanno usata con un certo disprezzo (disprezzo che in fondo accompagnerà costantemente il termine nel corso dei secoli), primo fra tutti Maurice Barrès a cui probabilmente si deve l’utilizzo del termine per la prima volta in quel contesto.

Come giustamente ha fatto notare Noam Chomsky (“Chi sono i padroni del mondo?”) anche gli avversari degli intellettuali francesi pro-Dreyfus a sua volta li possiamo definire “intellettuali”, anticipando di fatto la contrapposizione tra l’intellettuale politico di destra e di sinistra. Con la differenza sostanziale che “chi si mette al servizio dello Stato è venerato dalla comunità intellettuale, chi invece rifiuta di allinearsi viene punito.”

Insomma, intellettuali contro altri intellettuali, che gridano, sbraitano, diventano per la prima volta attori e questo semplicemente perché hanno finalmente un pubblico che li può seguire.

Basta leggere del resto attentamente il J’accuse per capire che quest’essenza da talk show è significativamente intrinseca all’essere intellettuale fin dalla sua nascita. Scrive difatti Zola: «io griderò questa verità, con tutta la forza della mia rivolta di uomo onesto»

Il termine ebbe fortuna e si diffuse ampiamente anche nella sua accezione russa di intelligencija (sembra diffusa dal romanziere e giornalista russo Boborykin), che aveva un forte connotato di classe o casta che dir si voglia, ovvero fortemente orientata verso un ruolo sociale a scapito di quello individuale.

E con la diffusione iniziarono i distinguo: Norberto Bobbio ad esempio parla di “intellettuali rivoluzionari” contrapposti a “intellettuali puri”: i primi impegnati contro il potere costituito mentre  i secondi servitori onesti della verità.

Tra i più importanti sostenitori di questa seconda posizione c’è Julien Benda, un intellettuale francese conosciuto per il suo La trahison des clercs (Il tradimento dei chierici). Benda accusa i “chierici”, cioè gli intellettuali, di aver tradito la loro posizione universalista di «custode di valori» al servizio di concetti universali come la ragione, la verità, la giustizia, a vantaggio dell’impegno politico, rinnegando in questo modo il proprio vero e autentico ruolo sociale:

«Il vero intellettuale non è mai tanto se stesso come quando, sulla spinta di una passione metafisica e dei principi disinteressati della giustizia e della verità, denuncia la corruzione, difende i deboli, sfida il potere inadeguato o tirannico» (J.Benda)

L’intellettuale per Benda non viene meno alla propria funzione nel momento in cui interviene nel dibattito pubblico, bensì quando vi interviene animato da passioni politiche.

Il Tradimento dei chierici sollevava, nel periodo dell’affaire Dreyfus, il problema della responsabilità degli intellettuali nei confronti della società civile:

«Penso che lo scrittore che tratta posizioni morali, non nei termini oggettivi dello storico o dello psicologo, ma da moralista, cioè improntandole a giudizi di valore […] ha il dovere di assumere una posizione precisa, a rischio altrimenti di cadere nella predicazione del dilettantismo, che costituisce, specificamente in fatto di morale, un insigne tradimento di chierico».

Il problema del rapporto tra cultura e politica del resto è  antichissimo, basti pensare a Platone; Julien Benda ha avuto il merito di capire come l’impegno nella politica avrebbe compromesso l’indipendenza del vero intellettuale.

Benda però non era così ingenuo da credere che gli intellettuali dovessero necessariamente astenersi dall’impegno politico o dagli affari pratici, (cosa che riteneva tra l’altro impossibile), ma riteneva piuttosto che il suo ruolo si snaturava proprio nel momento in cui fosse occupato attivamente di politica.

In pratica, l’esatto opposto di quanto sosteneva il “nostro” Gramsci che vedeva  invece l’intellettuale organicamente parte del partito politico, con una funzione sociale ben precisa. Maldonado a proposito rileva giustamente, dando di fatto ragione a Julien Benda: “a ben pensarci, l’accesso dell’intellettuale-politico alla gestione del potere non ha portato mai (o quasi mai) a risultati incoraggianti.”

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Rimane infine un’ultima riflessione da sviluppare: l’intellettuale ha sempre avuto le stesse caratteristiche nel corso della storia?

Secondo Maldonado, di intellettuali ce ne sono diverse tipologie (il  profeta, il minimalista, lo stentoreo, ecc.) ma tutte hanno una caratteristica comune: l’eterodossia. L’intellettuale agisce cioè:

«in contrapposizione ai dogmi, ai corpi dottrinali, ai modelli di comportamento, agli ordinamenti simbolici, e anche agli assetti di potere esistenti. […] La tradizione degli eterodossi è sicuramente la tradizione degli intellettuali»

In diverse parti del libro però si contraddice (e credo che se sia consapevole, dato che afferma che la sua è ipotesi dell’intellettuale eterodosso non è “del tutto persuasiva” ma può solo avere “il merito di essere almeno plausibile”).

E non potrebbe essere altrimenti, perché anche un ortodosso, organico al potere o semplicemente conservatore, può svolgere la professione di intellettuale, senza perdere affatto la propria identità: non sarà un libero pensatore, un philosophe, un dotto, non avrà nemmeno coscienza critica ma rimane pur sempre un intellettuale che dovrà fare i conti anche con il vile denaro, necessario per mantenere vivo l’unico ruolo che gli è rimasto, quello dell’urlatore, dello stentoreo. Per dirla con Maldonado:

«in mezzo a una foresta di voci che ammutoliscono la sua, egli opta per l’urlo stridente, alzando a dismisura la voce […] è afflitto dalla sindrome stentorea.[…] Di solito, l’urlo apre la strada a un’esplosione di violenza verbale generalizzata: insulti, improperi, ingiurie rivolte a tutti coloro che la pensano (o si presume che la pensino) diversamente. Il risultato è un grottesco happening di gesti e di parole in libertà. A pensarci, questo tipo di intellettuale ha qualcosa del commediante.»

Maldonado attribuisce all’intellettuale il termine corretto, “commediante“, sebbene lo fa solo per quella che considera solo una delle tipologie di intellettuale esistenti: l’intellettuale stentoreo.

Si tratta di una forzatura, difatti lui stesso afferma che “l’intellettuale oggi può difficilmente nascondersi, rannicchiarsi nel privato”: diventando pubblico perde però quella distanza che lo divideva da questo ultimo, perde cioè la sua essenza.

Alcuni[5] ancora oggi sostengono che:

«l’intellettuale non può permettersi di essere schizzinoso di fronte agli strumenti di comunicazioni odierni e in generale di fronte alla società contemporanea. Occorre sporcarsi nello stesso fango dove nuotano gli altri, controbattere colpo su colpo senza perdere il senso critico, la vera arma di chi lavora con il pensiero. Magari insieme a un vocabolario incisivo e comprensibile da tutti.»

Come si può non vedere che proprio tutto ciò in realtà conferma la tesi della morte dell’intellettuale (come definito all’inizio di questa riflessione): “sporcarsi nel fango” significa contaminarsi e perdere quella dignità, quel prestigio e quella distanza parte integrante del suo essere.

Certo, la realtà non è così lineare: in una società complessa come la nostra convivono diverse anime, gli imbecilli pur quantitativamente superiori, coesistono, in maniera quasi sconcertante e surreale, perfino con i premi Nobel nello stesso media.

Se una volta l’intellettuale aveva il proprio mezzo di comunicazione, inaccessibile al proprio pubblico, oggi invece questo mezzo si è volgarizzato perché la sua fruibilità è diventata semplice e immediata. Il pubblico ha derubato il “suo” media, il “suo” distintivo mezzo di espressione e con questo ne ha sottratto progressivamente (oggi completamente) prestigio e carisma.

La vicinanza che è derivata non è, detto per inciso, solo causa del pubblico ma anche da una contemporanea volgarizzazione dell’intellettuale stesso che modernizzandosi è diventato sempre meno dotto, sempre meno studioso, sempre più banale.

Il filosofo torinese Costanzo Preve diceva a proposito nel 2011:

“mentre ai tempi di Hegel e Schopenhauer, ma anche ai tempi di Adorno, gli intellettuali erano generalmente più intelligenti delle persone comuni, oggi ci troviamo in una situazione nuova: gli intellettuali sono nella stragrande maggioranza più stupidi delle persone comuni. E’ una novità degli ultimi 50 anni e lo vediamo quando vengono interpellati nei talk show televisivi perché dicono una quantità di stupidaggini molto maggiore di quelle che si sentono pronunciare dai tassisti, dai baristi o dalle casalinghe al mercato. Adorno, Marcuse e Sartre, ad esempio, si possono contestare, io ad esempio non sono d’accordo con loro ma senza dubbio dicevano cose intelligenti, che fanno riflettere. Oggi questo non accade più e dobbiamo aspettarci solo scemenze”.

E’ un’affermazione dura e probabilmente esagerata o ingenerosa, tuttavia è un dato oggettivo che la speranza che l’azione degli intellettuali avesse potuto elevare culturalmente la massa è miseramente fallita, sepolta dai “Mi piace” e dai cinguettii twitteriani onanistici.

«Non c’è dubbio che l’annuncio di una presunta, imminente morte dell’intellettuale può essere inteso come un tentativo di rimuovere […] la tradizione dell’intellettuale radicale, dell’intellettuale critico, dell’intellettuale scomodo. Musil la chiamava la tradizione dell’intellettuale brontolone» (Maldonado)

Considerare l’intellettuale morto per Maldonado rappresenta però un pericolo perché manca un’alternativa e così, nel disperato tentativo di cercarne una, arriva a considerare “l’idea di far subentrare il filosofo al posto dell’intellettuale-sacerdote”. Un’idea che lui stesso definisce “suggestiva, seppure discutibile”, la cui caratteristica principale è che dovrà restare fedele al suo ruolo di “risvegliatore di coscienze”:

«il che in pratica non significa altro che cercare di contrastare con tutti i mezzi l’appiattimento della nostra visione del mondo, di scompaginare a tutti i livelli i prepotenti disegni di omologazione, di corrodere ogni dogmatica certezza integralista, qualunque ne sia l’inspirazione»

Sostanzialmente, la speranza per Maldonado è, tradotta nella mia visione, quella di avere liberi pensatori, dotti, studiosi, politici, con visione critica della realtà e attenzione verso i valori universalistici di verità e giustizia.

Non si rende conto cioè che non può più sperare nell’intellettuale, poiché ormai moribondo e non più recuperabile.

Beati dunque i popoli che non hanno bisogno di intellettuali!

O magari – in piccolo – l’ultima speranza che ci rimane è quella prospettata da Umberto Eco e cioè che:

“Oltre un certo limite si crea una sindrome di scetticismo, la gente non crederà più a quello che dice Twitter. All’inizio grande entusiasmo, poi cominceranno a dire: dove l’hai letto? L’ha detto Twitter? Quindi, tutte balle”.

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Note

[1] Articolo de L’Espresso del 14 marzo 2018 che si può leggere qui

[2] Il concetto di missione è fondamentale per comprendere appieno la figura di intellettuale. Con J.G. Fichte (La missione del dotto) dovremmo però prima chiederci qual è la missione dell’uomo in sé e dell’uomo nella società.

[3] Per ulteriori approfondimenti, rimando al mio articolo su Madame Du Deffand  che si può leggere qui .

[4] E’ possibile leggere il testo integrale (comunque breve) del J’Accuse qui.

[5] Mi riferisco in particolare a quanto scritto qui

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Una risposta a Il suicidio dell’intellettuale

  1. La voce di tanti uomini e donne che oggi finiscono col ritrovarsi smarriti. Questa frase ha copito il segno che tanto volevo trovare “tuttavia è un dato oggettivo che la speranza che l’azione degli intellettuali avesse potuto elevare culturalmente la massa è miseramente fallita, sepolta dai “Mi piace” e dai cinguettii twitteriani onanistici.”

    Spero di poter lasciare il mio link,
    complimenti per il vostro lavoro.
    https://giovanninotarbartolo.it

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