Omaggio a Madame du Deffand

Madame du DeffandA veder bene, esiste una sola disgrazia nella vita, quella di essere nati”;
Voi trovate risorse in voi stesso; io in me trovo solo il nulla”.

Queste frasi potrebbero essere attribuite benissimo allo scrittore franco-rumeno Emil Cioran (feroce pessimista e scettico sui generis; vedere per approfondimenti anche l’altro mio blog, Tutto Cioran) e invece provengono dalla plume di Marie Anne de Vichy-Chamrond, meglio conosciuta come Madame du Deffand (1697-1780).

Personaggio singolare e dall’indubbio fascino, appartiene (se cediamo alla semplificazione della categorizzazione) al mondo dei salotti letterari, i Salons, che animarono il dibattito culturale di fine Seicento e dell’Illuminismo settecentesco francese.
Un’altra “Madame”, contemporanea, M. de Staal-Delaunay, “la Bruyère femminile”, autrice dei famosi Mémories, afferma di esserne stata conquistata “con le sue grazie alle quali non si resiste. Nessuno ha tanto spirito, e così naturale. Il fuoco scintillante che la anima penetra al fondo di ogni cosa […] Possiede a un grado supremo il talento di dipingere i caratteri”.
Lei stessa si descriverà compiutamente come “nemica di ogni falsità e affettazione […] il suo cuore è generoso, tenero, compassionevole, la sua sincerità oltrepassa i limiti della prudenza”.

Pur avendo un trascorso giovanile di libertina e nonostante i limiti fisici (era diventata cieca e qualcuno malvagiamente disse che “fu punita là dove aveva indotto gli altri al peccato”) seppe riscattarsi con esperienza, grazia e affabilità.
Di certo eccelleva nell’arte di conversare e di intrattenere gli ospiti, espressione vivente di quella “civil conversazione” teorizzata dal “nostro” Stefano Guazzo e della grazia, eleganza, superiorità e intelligenza, teorizzati in quella sorta di manuale di buone maniere che è “Il cortigiano” di Baldassare Castiglione.

Conversazione e arte cortigiana in fondo erano modalità di rivalsa per una nobiltà in crisi (in particolare dopo il periodo delle due Fronde, parlamentare e nobiliare, e con il ritorno di Mazzarino nel 1652 a Parigi), un modo per affermare il proprio lignaggio.
Spontaneità, semplicità, naturalezza saranno i temi ripresi nei salotti letterari, che progressivamente si allontaneranno idealmente dallo stile “prezioso”, lezioso, ricercato del salotto dell’hotel Rambouillet (di Catherine Vivonne di origini italiane e successivamente di Madame Scudéry) per essere sempre più vicino a quello di madame Sévigné (Maire de Rabutin-Chantal, famosa per le lettere scritte alla figlia, madame de Grignan) o di Madame de Sable che ebbero tra l’altro una curiosa e quasi contraddittoria simpatia per il giansenismo.
Spontaneità che tuttavia non si allontanava del tutto da una certa rigida struttura legata alle buone maniere, attenta alla forma e all’evitare forti contrasti:
“Quando sono obbligata a contraddire, amo molto il metodo del Président Hénault che si contenta di rispondere: ‘Cela se peut dire’; specie di contraddizione, reale quanto un’opposizione formale, ma più dolce e più giusta, perché più equilibrata” (Morellet, Critique des réflexions sur l’esprit de contradiction, Eloges de Madame Geoffrin, H. Nicolle, 1812, pagg.272-273, mia traduzione).

Madame du Deffand aveva dalla sua, oltre l’arte e la grazia, anche una certa ironia e levità che dovevano renderla di buona e stimolante compagnia, anche a giudicare dal folto numero di filosofi e letterati che frequentavano il suo Salon di rue Saint Joseph.
Un’ironia degna del miglior Leo Longanesi:
La cena: uno dei quattro fini dell’uomo; ho dimenticato gli altri tre
Vi rendete conto, signora, che questo santo [san Dionigi] ha portato in mano la sua testa per due leghe…due leghe!…”. “Oh, monsignore, gli rispose Madame du Deffand “è il primo passa che è difficile”.
Ieri avevo dodici persone, e ho potuto ammirare la differenza di generi e sfumature dell’imbecillaggine: eravamo tutti perfettamente imbecilli, ma ciascuno a suo modo”.

Mi ha sempre incuriosito questo mondo per diversi motivi: sono delle anticipazioni straordinarie dei moderni dibattiti pubblici (adesso spostati in tv o nelle piazze), delle chat, dei social network, perfino del marketing pubblicitario.
Sbaglia chi li lega soltanto ai Philosophes, ai filosofi dell’Illuminismo, perché di Salons ce ne furono (soprattutto a Parigi) davvero parecchi e diversi per luogo e principio ispiratore: conservatori e rivoluzionari, monarchici e repubblicani, di élite o semplicemente di moda, d’evasione o impegnati.
Nel Salon di Madame Lambert (presso l’hotel de Nevers), “per la prima volta gli scrittori come categoria si incontrano con gli aristocratici”, tanto che D’Alembert scriverà: “Gli uomini di mondo uscivano dalla sua casa più colti e gli uomini di lettere più amabili”.
La conversazione in questi salotti “è un’arte e i suoi contenuti finiscono col diventare secondari” (B. Craveri, pag. 90).
Morta Madame Lambert, gli ospiti habitués dell’hotel de Nevers (tranne Voltaire) emigrano in rue Saint-Honoré, nel salotto di Madame de Tencin, una ex canonichessa famosa anche per aver abbandonato il figlio davanti la chiesa Jean Le Rond vicino a Notre Dame, trovatello battezzato con lo stesso nome della chiesa, ma molto più conosciuto come D’Alembert.
Dal salotto di Tencin si distinguerà Madame Geoffrin, che aprirà poi nel 1749 il Salon rivale di Madame du Deffand.
Morellet (in “Eloges de Madame Geoffrin”, già citato) sostiene che le affinità tra le due salonnières sono molteplici ma che Du Deffand possiede più “esprit” (concetto quasi intraducibile: spirito, mente, intelligenza) anzi, dalla lettura delle sue lettere, emerge che il suo esprit è ancora tutto da scoprire, pur mostrando più volte disprezzo, “fino all’odio”, dell’opera dei suoi contemporanei, con una dote di cattiveria, di “malveillance” (“il fiele della satira”) che la distingue dalla Geoffrin, accogliente e obbligata ai colti frequentatori del suo salon.
Per non dire poi della avversione di Madame du Deffand per les philosophes (detestava Rousseau e criticava fortemente Diderot), per gli Encyclopédistes e l’Académie (“ci sono due posti vacanti all’Accademia: ci attendono quattro cattivi discorsi”)

“Lo stile è sempre chiaro e preciso; abbonda in forme piccanti e inattese” ma il vizio di fondo è la leggerezza, l’ingiustizia dei suoi giudizi, lo spirito di parte e la passione che mostra per tutto, e la futilità dei dettagli, e l’odio delle lettere”, l’odio della verità.

Leggere gli scritti di e su queste Madame, vere protagoniste della modernità, è come leggere un puzzle che si ricompone man mano, con dettagli dell’uno che si ritrovano nell’altro, in un gioco di incastri e intrighi entusiasmante come la lettura di un romanzo.

Come salonnière, du Deffand acquisisce esperienza alla corte della duchessa del Maine, la famigerata e cinica proprietaria del castello di Sceaux, quel “teatro delle follie”, come l’ebbe a definire Saint-Simon, mostruoso tempio del divertimento mondano, di show improvvisati, divertissement poetici e teatrali, ma capace di attrarre diversi personaggi, in particolare in quello che è stato definito il secondo periodo, dopo la congiura di Cellamare: da Fontenelle, vero anello di congiunzione tra i due periodi, a Marmontel, Voltaire, Montesquieu e tanti altri, tutti poi presenti nel salon di Madame du Deffand in rue Saint Joseph.
Fu introdotta nell’ambiente dal suo amante, il Président Henault, con cui ebbe un rapporto amoroso “senza romanzo”, poco passionale, convenzionale.
Conobbe il salotto di Madame Lambert ma snobbò quello della Tencin, probabilmente perché non le perdonò di aver abbandonato il grande amico D’Alembert.
Nel 1754, a cinquantasei anni, prese a suo servizio, la nipote Madamoiselle de Lespinasse, come assistente e lettrice.
I rapporti con la nipote si ruppero quando venne a sapere che il suo favorito D’Alembert, da lei sostenuto in numerose occasioni, provava una passione corrisposta a sua insaputa.
Assieme all’elegante venustà della nipote, a partire dal 1754 Saint Joseph conoscerà il suo periodo d’oro, incarnando “il modello più perfetto del salon parigino del Settecento” (B. Craveri, pag. 224).
Dopo la lite, la nipote, Julie de Lespinasse a sua volta aprirà, non distante dal suo, un altro indipendente salone letterario, in rue Saint Dominique.
Il salotto di du Deffand, al contrario di quello di madame Geoffrin o di Lespinasse, ebbe un carattere aristocratico, abbastanza estraneo, se non ostile, al processo di rinnovamento degli anni sessanta del Settecento.

Ciò non le impedì di essere quasi una leggenda vivente e di conoscere le più grandi personalità mondiali della letteratura e della filosofia: molti venivano a visitarla solo per poter raccontare ai discendenti di aver conosciuto l’amica di Voltaire, d’Alembert, Montesquieu, Maupertuis, Vauvenargues, Condorcet, Helvétius, Diderot, Marmontel, Raynal, Duclos, Chamfort, Condillac, Grimm, Malesherbes, Turgot, Quesnay, Mirabeau e tantissimi altri.
Nonostante tutte queste (illustri) frequentazioni, soffrirà per quasi tutta la vita di noia, quasi di depressione:
“Quello che si oppone alla mia felicità è una noia che assomiglia a un verme solitario e che consuma tutto quello che potrebbe rendermi felice”, pur riconoscendone a volte un aspetto positivo: “tutti si annoiano, nessuno basta a se stesso, ed è questa detestabile noia, da cui si è perseguitati e si vuole evitare, che mette tutto in movimento”.
Di certo faceva una vita regolata dalle visite, ma molto rilassante:
“sveglia alle cinque del pomeriggio, dopo un’ora si cenava con i suoi invitati e si stava in compagnia a chiacchierare fino alle due”.

Con Voltaire ebbe una intensa (e duratura: più di vent’anni) relazione epistolare, alla pari, capace com’era di riconoscere il talento, ma di non rimanerne succube.
“Bisogna rassegnarsi a seguire il nostro destino nell’ordine generale, e pensare […] che la parte che vi rappresentiamo dura solo qualche minuto. […] Bisogna essere Voltaire o vegetare” (a cui Voltaire impietosamente ribadiva che “il talento se ne va, il tempo distrugge tutto”, lettera del 12 gennaio 1759).
A Voltaire confessò il suo sostanziale pessimismo e la noia di cui soffriva:
Vivere senza amare la vita non ne fa desiderare la fine, e non diminuisce nemmeno il timore di perderla” (lettera del 16 maggio 1764).
Voltaire, dal canto suo, si rivelerà altrettanto pessimista, come dimostrano alcune sue frasi:
“Sono d’accordo con voi, la vita non serve a un gran che; la sopportiamo solo con la forza di un istinto quasi invincibile che ci è dato dalla natura” (lettera del 3 marzo 1754)
oppure:
“Siamo tutti come prigionieri condannati a morte, che si divertono nel cortile della prigione fino a quando vengono per portarli via” (lettera del 31 agosto 1764)
ma cercherà contestualmente di spingerla a reagire e a non abbandonarsi all’ennui, consigliandole anche, per superarla, di scrivere.
Molto più sinceramente Madame du Deffand cercherà di confessarsi (con grande preoccupazione del destinatario) con Horace Walpole, un nobile aristocratico di cui si innamorerà passionalmente, nonostante settantenne e cieca (e con più di vent’anni di differenza) e con cui scambierà una folta di circa 1700 lettere, di cui solo metà circa giunte fino a noi:
“Non sapete che detesto la vita, che mi dispero per avere vissuto così a lungo, e che non mi consolo di essere nata? Non sono fatta per questo mondo […] Si sa tutto e si teme la morte,e perché la si teme? Non è solo per l’incertezza dell’avvenire, è per una grande ripugnanza che si sente per la propria distruzione e che la ragione non sa distruggere. Ah! la ragione, la ragione! Che cos’è la ragione? Quale potere ha? Quando parla? Quando possiamo ascoltarla? Quale bene ci procura? Trionfa sulle passioni? (lettera del 23 maggio 1767).
“Ditemi perché, detestando la vita, temo la morte? Niente mi fa pensare che non tutto finirà con me; al contrario, mi accorgo del deterioramento del mio spirito, e anche di quello del mio corpo” (lettera del 1 aprile 1769)
Di Walpole, sempre molto lucidamente dirà:
“Avete una debolezza che non è perdonabile, sacrificate ad essa i vostri sentimenti, ad essa sottomettete la vostra condotta: è la paura del ridicolo” (Ritratto del 1766).

Cosciente di morire, dirà poco prima dell’ultimo atto della propria vita: “Avverto molto nettamente di perdere a poco a poco tutte le facoltà della mente; la memoria, l’applicazione, la facilità d’espressione…” e ancora nell’agosto del 1780: “…la mia voce si è spenta, non sono in grado di reggermi sulle gambe; stento a credere che questo stato non annunci una prossima fine”.
E, in effetti, da quel momento sprofonderà in una specie di letargo, in quella vita vegetativa che più volte aveva desiderato (“bisogna finire la propria carriera vegetando quanto più possibile”, lettera del 16 maggio 1764).
Fino al 23 settembre, quando Wiart, il domestico, segnalerà il suo decesso a Walpole dichiarando in una lettera, tra altri minuscoli dettagli: “Era lontana, signore, dal desiderare onori dopo la morte […] ha anche chiesto di essere sepolta nella chiesa di Saint-Sulpice, la sua parrocchia, ed è là che riposa”.

Rimane intatto, oltre quel “fuoco scintillante” che Madame de Staal intravedeva nella sua anima – il limpido esprit dalla modernità ancora poco riconosciuta -, un suo piccolo messaggio finale, contenuto nell’ultima lettera inviata a Walpole:
“Divertitevi, amico mio, più che potete; non affliggetevi per il mio stato”.
Messaggio tanto originale all’epoca (imprinting del diffuso libertinismo settecentesco) quanto abusato e frainteso oggi: straordinario miscuglio di egocentrismo e altruismo, stravagante connubio di un eccentrico e cioranicamente lucido personaggio.

[Per approfondimento su questo singolare personaggio femminile consiglio il libro di Benedetta Craveri, Madame du Deffand e il suo mondo. Libro di ben 680 pagine (regesto incluso) ma che si legge con la stessa voracità di un appassionante romanzo e che è stato la fonte di ispirazione del presente articolo. Detto per inciso, si interessò di lei anche Alexandre Dumas (padre) dedicandole un romanzo:“Mémoires d’une aveugle ou Madame du Deffand ou Le confessions de la marquise” del 1867, libro dimenticato dall’editoria italiana, ma che è possibile leggere in francese grazie a Google Libri]

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