Il moderno capitalismo e la sua cultura

immagineJeremy Rifkin è un economista conosciuto per aver teorizzato provocatoriamente ma dettagliatamente la fine del lavoro di massa con conseguente miglioramento della qualità di vita e liberazione da una millenaria schiavitù.

Parlarne oggi, nel pieno della crisi economica europea (disoccupazione media nell’area euro EA17 al 12.2% a maggio 2013, curiosamente stesso dato dell’Italia, e GDP- conosciuto come PIL- a -2.4% nel 2012 rispetto all’anno precedente) sembra quasi essere una discussione surreale.
In realtà, il problema esiste, non tanto nei suoi termini estremi (il lavoro finirà oppure continuerà sempre a esistere?) ma nelle sue sfaccettature intermedie (sarà soggetto o no a una sempre maggiore se non ineludibile flessibilità e precarietà?).

Come era facilmente prevedibile, e come evidenziato da diversi critici tra cui segnalo il sociologo Richard Sennett, la scomparsa di posti di lavoro e la precarizzazione, non solo non ha comportato maggiori libertà, ma ha aumentato le incertezze e le conseguenze negative dell’instabilità lavorativa anche a livello sociale.

Partendo dal noto “spirito del capitalismo” di Max Weber, Sennett si preoccupa di analizzare, in particolare nel libro “La cultura del nuovo capitalismo” (Il Mulino, Bologna, 2006) con uno stile lineare e divulgativo (alla americana), i nuovi problemi che il capitalismo pone per il futuro.
Dissolta la gabbia d’acciaio, e partendo dal concetto di “capitale sociale“ di Robert Putnam, Sennett rileva almeno tre deficit del cambiamento strutturale che meritano di essere affrontati: la ridotta lealtà nei confronti delle istituzioni, l’indebolimento della fiducia informale tra i dipendenti e la diminuzione delle specifiche conoscenze delle istituzioni.
Ponendo un problema di fondo: “se il datore di lavoro vi dice che dovete fare da soli, che l’istituzione non vi aiuterà se ne avrete bisogno, perché dovreste sentire un forte obbligo di lealtà nei suoi confronti?”; vale a dire il problema, oggi ampiamente sottovalutato, della fiducia umana nelle relazioni economiche, in particolare quando queste si indirizzano verso dei criteri di vantaggio individualistico o quando manca una strategia generale per l’utilità sociale complessiva.
Le imprese, specie nei periodi di crisi, scoprono con fatica quali conseguenze pratiche abbia la scarsa lealtà e la mancanza di fiducia, formale e informale, nonché la sempre maggiore mancanza di conoscenza generale della struttura (“spesso i capisquadra ne sanno più dei loro dirigenti in giacca e cravatta”).

Il “capitale sociale” si erode e genera disuguaglianza.

Senza una coscienza strutturale di questi meccanismi, la classe dirigente in particolare rischia di trarre un vantaggio di classe o meglio di “funzione”, se non addirittura personale, che è insieme mancanza di visione a medio-lungo termine ed egoistica predominanza degli istinti di prevaricazione.
Un vantaggio, detto per inciso, che non può durare a lungo e che non può crescere infinitamente.
Lo si voglia o no, la ricchezza si sostiene inevitabilmente a danno di una parte della società; non può reggere, nemmeno concettualmente, un sistema economico dove tutti siano ricchi e nessuno povero. Tutto questo però ha un limite, superato il quale, il disagio si trasforma in disordine sociale, oppure, nelle società più solide democraticamente, in scontro di potere per l’ottenimento un nuovo equilibrio, anche temporaneo: la domanda globale, sostenuta dalla massa indigente o sofferente, finisce per contrarsi e trascinare con sé i vantaggi settoriali delle classi più ricche, che saranno costrette a cedere (non necessariamente in termini reali) parte del proprio potere.

La vecchia struttura, che Weber aveva intuito e indagato, non c’è più perché superata da strutture flessibili, “liquide” (secondo una felice definizione di Zygmunt Bauman), soppiantata da un nuovo meccanismo di potere, dove il centro controlla la periferia e il prestigio morale del lavoro è completamente mutato.
Lo spettro dell’inutilità si affaccia e riesce perfino a scalvalcare il valore aggiuntivo dato dalla Bildung (si veda nella Nota a fine articolo cosa si intende con questo termine) per incomprensione del processo e per incapacità di una visione strategica che esuli dal singolo immediato vantaggio.

Già agli albori della scienza economica, Malthus e Ricardo avevano indicato il rischio di un eccessivo fabbisogno di forza-lavoro: il primo attraverso la celebre formula di crescita con progressione geometrica della popolazione contrapposta alla crescita con progressione aritmetica degli alimenti e la consequenziale necessità di ridurre le nascite; il secondo facendo dipendere il saggio del profitto dal saggio del salario (nello specifico in agricoltura), destinato ad erodersi quando quest’ultimo aumenta.
L’inutilità è una minaccia moderna dovuta all’offerta mondiale di forza-lavoro, all’automazione e al prolungamento delle prospettive di vita.
Oggi l’eccessiva forza lavoro mondiale provoca una corsa al salario più basso, l’automazione aumenta la produttività che porta da un lato a non richiedere più l’attività umana per quel tipo di produzione, dall’altro alla produzione di beni non altrimenti producibili.

Sebbene un acuto pensatore come Ralph Waldo Emerson, avesse intuito che “la mente umana era anch’essa un fattore nell’economia politica, e che i crescenti bisogni della società sarebbero stati soddisfatti da un crescente potere di invenzione”, tuttavia è abbastanza ragionevole individuare o immaginare un limite o meglio diversi limiti (anche nel tempo) per cui questa “inventiva”, se non si esaurisce del tutto, quantomeno cresca in misura inferiore rispetto ai bisogni economici (reali o immaginari), determinando una contrazione, anche temporanea, della domanda globale.

Il lavoratore ha un lavoro precario, incerto e se ce l’ha è inserito in una rete che cambia continuamente (qualcosa di molto diverso da ciò che aveva analizzato Weber).
Anche forme di meritocrazia (termine coniato da Michel Young e oggi di uso comune) possono comportare minacce di senso di inutilità a causa dell’esclusione di uomini che non hanno superato certe prove fisiche o intellettuali (Sennett ha in mente il SAT, il Scholastic Aptitude Test americano, ma il concetto si può estendere a tutti i test e in particolare a quelli relativi al IQ, al Quoziente d’Intelligenza).

Se all’inizio c’erano quasi delle considerazione etiche sottese, come la ricerca dell’aristocrazia naturale alla Jefferson (per cui il talento deve essere valorizzato, quasi per senso di giustizia sociale), il rischio è che queste ricerche del talento non comune, a parte la creazione di un ambiente altamente competitivo, siano non sufficientemente corrette, per l’uso eccessivo di test discutibili, anche perché inevitabilmente soggetti a una particolare visione della realtà.
Non è un caso il successo ottenuto dal concetto di “intelligenza multipla” di Howard Gardner: supera diverse difficoltà concettuali dei test meritocratici e detto incidentalmente ha il vantaggio non indifferente di soddisfare o dare una speranza a tutti, anche ai meno geneticamente dotati.

Il rischio è che il lavoro sia considerato solo in rapporto alla produttività ovvero alla quantità di prodotto nell’unità di tempo, trascurando completamente la qualità dello stesso prodotto e le caratteristiche del “produttore”.
Sennett fa a questo proposito alcuni esempi pratici di lavori in contabilità giudicati secondo il numero di documenti “processati” e non secondo il fatto che siano stati fatti bene o accuratamente.
Assume importanza la “capacità potenziale” dell’individuo, ciò che per Abraham Maslow era “un’interazione che dura tutta la vita tra le capacità genetiche di una persona e le sue esperienze nella società” (concetti che si ritrovano anche in Amartya Sen e Martha Nussbaum sulle capacità umane).

Argomento altrettanto interessante è quello che Sennett dedica al consumo (nel capitolo “Politica come consumo”): una passione che consuma se stessa, alla maniera descritta da Proust o da Honoré de Balzac in Le Père Goriot dove i personaggi desiderano fortemente ciò che non hanno, ma appena possiedono ciò che desiderano, l’ardore iniziale scompare.
La sovrabbondanza e lo spreco sono strettamente legati.

Anche i lavoratori ricadono in questo vertice di consumo per cui diventano sostituibili senza incidere o scalfire l’istituzione, semplici ruote di un ingranaggio da sostituire.
Il consumo si basa tutto sull’immagine esteriore, i beni sono prodotti con “tecniche di piattaforma” per cui due automobili sostanzialmente sono uguali in qualità di componenti (come Skoda/Volkswagen) e sono vendute a segmenti di acquirenti completamente diversi che si lasciano guidare più dalle sensazioni e dalle associazioni derivanti dalla pubblicità che dal vero valore del bene oppure semplicemente dalla sensazione di potenza che il bene può dare.
I beni sono così carichi di numerose funzioni che spesso non saranno mai utilizzate dai fruitori o da gran parte di essi; si standardizzano e offrono potenzialità che non si potranno mai razionalmente sfruttare (milioni di canzoni che non si ascolteranno mai; video, libri, software che non saranno mai utilizzati e così via).

Il consumo ha in comune con la politica il teatro:

il consumo ha un aspetto teatrale perché l’acquirente, come l’autore di un’opera teatrale, deve ottenere una ‘sospensione volontaria dell’incredulità’ affinché il consumatore comperi […] Oggi, la passione del consumo ha una forza drammatica […] La drammatizzazione del potenziale induce il consumatore-spettatore a desiderare cose che non può utilizzare pienamente”.
Il consumatore è cosciente spesso di questi aspetti, eppure non è capace di separarsene, quasi provasse piacere o una rassicurazione libidica in ciò, il piacere di illudersi.
Un meccanismo, a ben vedere, molto simile alla religione.
Il consumatore non ha bisogno di sapere che quella data pubblicità e quel prodotto diano davvero gli effetti strabilianti che promettono, eppure inconsciamente attribuisce un “valore” al bene pubblicizzato, lo investe inconsapevolmente di una componente imperscrutabile (per cui, anche ciò che razionalmente potrebbe essere un’accusa infamante, diventa provocazione accettata, quasi un vanto: esempio per tutti la campagna Diesel, Be stupid).

Gli esempi di questi comportamenti paradossali sarebbero diversi, il media cessa la sua funzione di comunicazione e di “tramite” per diventare “finalità” seppur effimera, concretizzandosi in una qualità esterna al soggetto, una maschera teatrale appunto, dove la razionalità è solo uno dei diversi moventi del comportamento adottato.
Qui il terreno però si fa ampio e meritevole di ben altri approfondimenti.
Vorrei solo sottolineare, per concludere, l’importanza assunta da tali meccanismi psicologici e sociali nella determinazione di comportamenti economici.
Più correttamente, questi elementi fanno parte o dovrebbero far parte integrante della scienza economica.
Senza di essi, l’economia, abbandonata a leggi matematiche o peggio statistiche, diventa pura astrazione e sarà destinata ad allontanarsi sempre più dall’umanità, adagiandosi su un campo neutro che piace a molti, ma in sé sterile e, per molti versi, dannoso.

Giuseppe Savarino

Nota tratta dal libro “La pedagogia e le sfide della pluralità nella società postmoderna” di Siegfried Baur, Edizioni Erickson, 2008:

Bildung nella concezione umanistica tedesca, da Wilhelm von Humboldt (1767-1835) in poi, indica un concetto molto ampio, non perfettamente traducibile in lingua italiana. Indica soprattutto ciò che va oltre la formazione, ossia l’istruzione, l’acculturazione, la formazione in senso tecnico e come addestramento e significa soprattutto ciò che si potrebbe indicare come un processo verso la costruzione di una personalità critica e matura. In termini più analitici, Bildung (formazione) è lo sviluppo processuale di capacità cognitive, emozionali, sociali e di capacità dell’agire autonomo e con assunzione di responsabilità, anche nello spazio politico e nello spazio della comunicazione e della pedagogia dell’incontro, verso la formazione di una personalità attraverso l’acquisizione di saperi e valori.
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