La morale secondo Eugenio Lecaldano

Con questa “Prima lezione di filosofia morale” – edizione Laterza, fine 2010 – Eugenio Lecaldano, a dispetto dal titolo (derivante probabilmente solo da esigenze editoriali) non fornisce una “lezione”, né tantomeno una “prima lezione”, ma semmai sostiene una delle tanti “teorie” morali esistenti, giustificandola all’interno di un quadro esauriente, rigoroso e organico.

Già precedentemente avevo letto dello stesso autore “Un’etica senza Dio”, un libro ben scritto e documentato, utile anche per chi non ha molta familiarità con questo genere di argomenti, estremamente semplice e lineare nella sua tesi di fondo.
Tesi che banalmente possiamo considerare come lo sviluppo di quella di Bayle nonché molto vicina a quella di Holbach: la morale non solo può essere laica, ma è anche auspicabile che lo sia.

Ricordo che la filosofia morale, a differenza della sociologia o della antropologia, mette in discussione perfino gli stessi concetti morali (pretese o convinzioni) oggetto d’indagine e studio (rif. David Cropp), in particolare quella parte identificata come metaetica, per la quale il nostrano ed eclettico prof. Giulio Preti (1911-1972) sottolineava non a caso la necessità di un passaggio terminologico da “filosofia morale” a “filosofia della morale”.

Una filosofia (della) morale che Lecaldano concepisce non tanto come prescrizione normativa o pratica universale ma piuttosto come “una riflessione che intende comprendere la natura della morale” stessa.

Uno dei primi problemi concettuali che viene affrontato nel libro è l’origine del fenomeno:
da dove nasce l’esigenza di una moralità? Perché esiste la morale?

Inizialmente la morale è concepita solo come derivante da un essere divino (teoria teistica);  successivamente si sono affacciate altre tesi: la morale originata nella natura, espressione comunque della volontà divina (teoria giusnaturalistica) oppure dalla ragione (teoria razionalistica).
Già John Stuart Mill aveva rilevato l’errore di fondo di tutte e tre queste teorie genealogiche: ciò che è o può essere l’origine della morale non può e non deve essere scambiato come fondamento della validità della teoria stessa.
Lecaldano eccepisce, in aggiunta, che tutte queste teorie pretendono di fissare a priori dei valori assoluti, validi per tutti e per sempre.
L’autore si colloca esplicitamente in una “teoria sentimentalistica della morale“, in cui sono i sentimenti e le emozioni a giustificare e dare una valutazione di validità morale ad un comportamento.
In questo senso un contributo fondamentale è sicuramente quello di Hume (si percepisce per tutto il libro la passione che lega Lecaldano a quest’autore) che – rifiutando interpretazioni teleologiche – riteneva la genesi della morale risiedere nel “principio di simpatia” ovvero nella inclinazione degli esseri umani a tener conto e a partecipare dei piaceri e dei dolori dei loro simili.
Teoria tra l’altro sostenuta indirettamente anche da Charles Darwin, da Adam Smith, da diversi studiosi evoluzionistici e da psicologi come Shaun Nichols.
Per Hume il centro della moralità non è la Ragione o il confronto di idee (idonee più che altro “a privilegiare una via da seguire ma non a indicarci una meta“) ma i sentimenti.
Da non confondere quest’ultimi con gli impulsi immediati (come fa il paradigma kantiano e razionalistico o utilitaristico) che non potranno mai acquisire il rango di leve morali e che possono portare a conclusioni totalmente incoerenti.
Da rilevare come, in merito a ciò, Bentham metteva in allarme sul fatto che sistemi di simpatia sostituiscono di fatto la Ragione, “una ragione sufficiente a se stessa” perché si riducono ad un appello a un criterio esterno, con il rischio di essere esclusivi.

La meta-etica sentimentalistica riconosce che vi può essere una pluralità di prospettive morali” escludendo pertanto assolutismi universalistici.
In tal senso Lecaldano riconosce che si tratta di una forma di relativismo etico, almeno nel “momento in cui lega i valori alla soggettività individuale“, precisando inoltre che questo non equivale a sostenere che una concezione morale abbia lo stesso valore di un’altra (obiezione spesso rivolta alle etiche relativistiche).

Da un punto di vista normativo possiamo invece parlare di tre etiche differenti: deontologica, conseguenzialista e etica della virtù.
La prima è collegata con l’imperativo categorico kantiano, per cui ci sono dei principi etici che vanno rispettati, sempre e comunque, al di là delle conseguenze che possono avere, cosa viceversa negata dal conseguenzialismo (e dall’utilitarismo).
Quest’ultima impostazione, come aveva già fatto notare Hume, richiede che vada ulteriormente chiarito quali siano queste conseguenze (difatti da qui è nata sia l’etica utilitaristica – che privilegia le conseguenze “utili all’umanità”, con Bentham, Sidgwick, Harsanyi o Singer – e sia, volendo semplificare, le varie teorie morali sulla giustizia, a cominciare da John Rawls).
L’etica sentimentalistica si basa invece sul principio del rifiuto delle sofferenze non volute delle persone, una sorta di utilitarismo della virtù, un paradigma che “procede sostenendo che gli esseri umani entrano direttamente in contatto con ciò che ha valore o un disvalore, senza bisogno di passare attraverso un qualche concetto generale della natura umana“, come richiesto invece da un’etica aristotelica.
Di conseguenza in alcune situazioni prevalgono le esigenze di familiari o amici, in altre la lealtà verso interessi e beni pubblici.
E diversamente dall’etica aristotelica, antropocentrica (o anche meno, visto che quest’ultima escludeva ad esempio le donne e gli schiavi) l’etica sentimentalista valuta gli atteggiamenti morali nei confronti di tutti gli esseri viventi, anche diversi dall’uomo (per esempio gli animali, rif. Singer).
Un’etica non empirica, nel senso che le valutazioni morali provengono non dal carattere intellettuale e intuitivo dell’esperienza, ma piuttosto dalla “dimensione empatica, simpatetica e affettiva“.
Questo modello chiaramente permette una discussione metaetica che la rende senz’altro relativistica e tollerante, fortemente influenzata dal contesto, neo-illuministica, di certo lontana dai modelli delle etiche cristiane e rigoriste e “dall’assolutezza, dalla definitività e dalla certezza”.
Molto vicina quindi alla visione di John Stuart Mill (o più di recente a quella di Amartya Sen) e al suo “principio di non interferenza”: unico principio in grado di permettere il “pieno sviluppo delle capacità e dunque la libera formazione del carattere” dell’individuo.
Una visione, rileviamo, a tratti eudemonologica:
la pretesa di assolutezza della morale non è solo un tratto epistemologicamente irricevibile, ma è anche un tratto normativamente negativo che ostacola gli esseri umani nei loro tentativi comuni di realizzare una vita più felice e pacifica“.

Dal punto di vista dell’applicazione pratica, l’etica sentimentalistica deve fare i conti con le conseguenze del progresso economico e tecnologico e quindi dei suoi riflessi sull’ambiente, sul clima, sulla genetica, sugli animali.
Ma ancora più specificatamente con questioni come la fecondazione in vitro, la clonazione riproduttiva, le scelte di fine vita (dal diritto a morire alla assistenza terapeutica) e le trasformazioni genetiche.
Tutte questioni delicate per le quali l’etica sentimentalistica non auspica leggi che impongano limiti contro la volontà delle persone interessate, ma si limita “a suggerire una riflessione individuale”.
Riflessioni che possono portare a considerazioni come questa (già sostenuta da J.S.Mill):
donare una vita che può rivelarsi una maledizione o una benedizione è un crimine verso l’essere cui la si dona, se non gli si offrono quanto meno delle opportunità normali di condurre una esistenza desiderabile
Il ricorso in questi casi al concetto di “natura” non regge perché la natura chiaramente include condizioni inaccettabili quali malattie, fame, povertà e altre calamità.

L’etica sentimentalistica sostenuta da Lecaldano in questo saggio è la teoria morale oggi forse più sostenuta in assoluto dagli studiosi di etica e quella che probabilmente più si adatta alle società moderne occidentali.
Un’impostazione davvero difficilmente non sostenibile per quanti hanno a cuore la questione delle libertà individuali e dei diritti umani, non a caso quindi analizzata in questo blog.

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