Una delle prime impressioni che ho avuto leggendo questo piccolo ma intenso libro di Stuart Hampshire “Non c’è giustizia senza conflitto” (o meglio secondo il titolo originario “Giustizia è conflitto”), è stata l’assenza della parola tolleranza, pur parlandone indirettamente in tutto il libro e in maniera estesa e convinta.
Era dai tempi delle letture di Voltaire che non leggevo un autore, (escludendo John Stuart Mill, di cui mi sono occupato nel primo articolo di questo blog) che avesse non soltanto un’alta considerazione teorica del valore della tolleranza, ma che ne dimostrasse altresì l’indispensabile necessità per l’umanità intera, con un ragionamento ampio e articolato.
“C’è un solo, fondamentale principio morale che tutti i cittadini farebbero bene ad accettare e rispettare nella pratica: il principio dell’equità istituzionalizzata nelle procedure per la risoluzione di questi conflitti”.
Con questa frase Stuart Hampshire sintetizza il suo pensiero ovvero occorre che, nella ricerca del reciproco rispetto, sia accettato da tutti non l’idea sostanziale di ciò che è bene o male, ma bensì il rispetto delle procedure.
Un concetto, se vogliamo simile a quello di Montesquieu.
Tanto da demolire viceversa qualsiasi ipotesi concettuale del “buon senso”:
“La creazione di istituzioni e procedure unanimemente accettate dovrebbe avere la priorità sull’enunciazione di princìpi universali”, rovesciando così il rapporto di giustizia e legge di Thoreau, pur con differente terminologia (‘giustizia sostanziale’ piuttosto che ‘giustizia’; ‘giustizia procedurale’ piuttosto che ‘legge’).
Hampshire sostiene che la condizione necessaria per definire un processo giusto ed equo è che le opposte rivendicazioni siano ascoltate e che ci sia un’istituzione destinata al contraddittorio.
Questo basta a garantire l’esistenza di una vera società liberale. Il conflitto è insito nell’individuo come nella società, non si può prescindere da esso e la giustizia deve essere trovata all’interno del conflitto stesso.
La presenza di fanatici e illiberali deve “essere data per scontata in ogni società veramente liberale”. Ecco perchè “soltanto il principio di equità nella risoluzione dei conflitti può rivendicare una validità universale come principio di razionalità condivisa”.
Anche le convinzioni di giustizia sostanziale variano in relazione ai tempi e ai luoghi, così come lo è stato, in tempi relativamente recenti, con la schiavitù, con la condizione femminile e con le disuguaglianze sociali.
Anche la democrazia, “solitamente esaltata come la forma di governo in grado di assicurare la rappresentanza più completa e più equa possibile di tutti i cittadini dello stato”, non è condivisa da Stuart Hampshire: se la maggioranza sostiene politiche sbagliate, non può, con la popolarità delle politiche, attenuare gli errori e il male.
E lo stesso vale per il monoteismo che ha la colpa di voler eliminare il conflitto stesso, con le sue idee precise e senza replica sul concetto di bene e di male.
Questo tuttavia non deve ingannare e portare ad una convergenza fatta di valori universali da imporre a tutti. La critica di Hampshire è infatti rivolta a qualsiasi concetto di universalità, quindi anche contro i pretesi diritti universali dell’uomo:
“L’errore, la trappola fondamentale è proiettare in un modello astratto le abitudini e le convenzioni più stabili e diffuse in un luogo e in un tempo particolari, e chiamare questo modello ‘natura umana’“.
Il problema per Hampshire non è teorico, ma essenzialmente pratico.
La comunità non è astratta, ma fatta di gruppi di interessi e individui con bisogni e necessità non soltanto diversi tra loro, ma spesso anche divergenti e non conciliabili.
“Nel pensiero e nell’azione quotidiani, e soprattutto nella politica, noi dobbiamo costruire un ordine di priorità tra i mali da evitare […] La mia concezione del bene è l’ordine di priorità che abitualmente assegno ai mali da evitare quando devo prendere una decisione”.
Hampshire considera per esempio la fame e la povertà tra le priorità più alte, ma ritiene che non si possa pretendere che anche altri diano la stessa priorità alle cose.
Per questo Hampshire, pur analizzando il concetto di giustizia in rapporto al conflitto, finisce con il parlare quasi di real politik: i politici, dice, agiscono per sostenere il loro partito perché, se si ostinassero a perseguire la loro concezione del bene, finirebbero per non contare più nulla e sparirebbero dalla scena.
Nonostante questi limiti, Hampshire riconosce l’importanza della politica per la risoluzione dei grandi mali della società, anche in “sostituzione delle istituzioni religiose e alle loro opere di carità”.
“I conflitti ci sono e il fatto che debbano essere risolti o con l’argomentazione o con la forza è una necessità e non una questione di opinione”.
Per evitare quindi la violenza occorre insistere con la logica.
Il caos è l’unica conseguenza disastrosa se non c’è il rispetto della giustizia procedurale e quindi deve essere considerato un “grande male” per tutti.
Per questo concluderei con un’ultima frase, illuminata e illuministica, di questo bellissimo libro, purtroppo sconosciuto in Italia (pubblicato però da Feltrinelli):
“Il dibattito aperto sul conflitto dei valori è in sé un valore“.